Coronavirus, “in Italia il modello Cina non è applicabile” 

“Ci dicono che in Cina, in cui la regione più colpita dal contagio è popolosa quanto l’Italia, le misure restrittive hanno funzionato. Parliamo però di 60 milioni di persone, isolate da ogni punto di vista, su un totale di oltre un miliardo che invece ha continuato a vivere e a produrre, coprendo anche il fabbisogno di chi era impossibilitato a farlo. Noi non possiamo isolare l’intera popolazione, semplicemente per la necessità di consentire lo svolgimento delle proprie attività a una serie di categorie di lavoratori. Così con le attuali misure appiattiremo il picco delle infezioni, consentendo al nostro sistema sanitario di reggere l’urto ma, non potendo imporre la clausura per tutto il periodo necessario, allentata la restrizione si ricomincerà daccapo, con nuovi focolai, un altro picco e via dicendo. Ne deriva facilmente che il modello cinese da noi è inapplicabile”. E’ quanto afferma all’Adnkronos Salute Giuseppe Maria Milanese, medico infettivologo e presidente di Osa (Operatori Sanitari Associati) e di Confcooperative Sanità. 

“Guardando sempre ad Oriente – prosegue – può avere invece senso considerare il modello coreano: in Corea del Sud i numeri del contagio sono crollati non a fronte di una reclusione generalizzata, ma grazie all’esecuzione di massa dei tamponi, individuando tutti i soggetti positivi, anche quelli asintomatici, costringendo alla quarantena insieme a tutti coloro che vi erano stati a contatto. Praticamente una situazione speculare, nel senso di uguale e contraria alla nostra, in cui è facile presumere la circolazione di diverse migliaia di persone positive al virus non diagnosticate e quindi la proiezione di un contagio assai più largo e pernicioso di quello di cui crediamo di avere contezza”.  

“Se poi scendiamo nel particolare, emerge che nell’ultima settimana in Italia non sono stati sottoposti a tampone neppure i soggetti sintomatici, invitati tout-court a restare tra le mura domestiche. Così nella Capitale – dice Milanese – migliaia di persone devono accontentarsi di una sorveglianza sanitaria del 112 e del medico di base, a distanza e nella sostanza surreale, continuando a distribuire virus, tramite i conviventi. Molte persone sono lasciate – abbandonate a se stesse – in casa, in quarantena sempre senza tampone, e una parte di loro muore senza diagnosi, prima che senza aver almeno tentato una terapia. È allora chiaro che noi non abbiamo proprio idea dei numeri dei positivi con cui abbiamo a che fare, neanche tra i sintomatici e tra coloro che non ce l’hanno fatta: in soldoni, non conosciamo l’estensione reale del contagio, checché si affanni a puntualizzare ogni giorno il bollettino della Protezione Civile”.  

“Infine, una denuncia a cui non posso sottrarmi – prosegue il presidente Osa – per la mia storia e i ruoli che rivesto. Gli operatori sanitari italiani impegnati sul fronte di questa drammatica vertenza non sono stati dotati di protezioni idonee. Fatti salvi i medici del pronto soccorso, i rianimatori e gli infettivologi, gli altri milioni di specialisti e infermieri, costretti a contatti continui e diretti con i malati da coronavirus sono sguarniti di dispositivi all’altezza. Potrei portare troppi esempi di cui ho notizie verificate delle incresciose condizioni in cui versano molti ospedali romani e, conseguentemente, dei numeri del contagio che si allargano a macchia d’olio ogni giorno”.  

“Non ho timore ad affermare che non proteggere con sicurezza gli operatori sanitari è un delitto che si compie contro le loro vite e contro le vite di chi dovrà averci a che fare. Ed è un fattore di ulteriore ingolfamento del sistema sanitario pubblico che avrebbe al contrario urgente bisogno di funzionare in modo fluido e spedito. Ma, si sa, noi italiani sappiamo essere provetti autolesionisti del ‘dum Romae consulitur’: e mentre Sagunto viene espugnata, alimentiamo la malattia di medici e infermieri della cui esperienza non dovremmo fare a meno, moltiplichiamo i ricoveri in nosocomi già da tempo al collasso e consideriamo di mandare allo sbaraglio della peggiore tragedia nazionale dal dopoguerra medici appena laureati”, conclude. 

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