di Paola Olgiati
L’impressione è che sia passato un anno, invece è trascorso solo un mese. Trenta giorni da quel 21 febbraio quando tutto è cominciato, con la notizia del 38enne Mattia che all’ospedale lodigiano di Codogno svelava l’ingresso del nuovo coronavirus in Italia. A Maria Rita Gismondo, direttrice del Laboratorio di microbiologia clinica, virologia e diagnostica delle bioemergenze dell’ospedale Sacco di Milano, centro di riferimento contro Covid-19, sembra “un sogno” dei più brutti, “una favola” di guerra con camici bianchi in trincea che hanno perso il senso del tempo: “Ormai siamo abituati non avere più distinzione tra sabato, domenica e il resto della settimana – dice all’AdnKronos Salute – spesso neanche tra il giorno e la notte”.
“Stiamo vivendo in un mondo che non conoscevamo”, spiega l’esperta, al telefono mentre “sto facendo la coda fuori dal supermercato perché in casa non c’è più niente”, racconta. “Un mondo stranissimo – sottolinea – circondati da persone che ci chiedono cosa ne pensiamo, cosa accadrà, la data in cui finirà, come se noi fossimo i depositari della verità di questo virus. Noi in realtà siamo preoccupati come tutti gli altri”, confessa la scienziata. C’è timore, ammette, di fronte a “quello che prima non ci preoccupava e che io e altri virologi – come del resto l’Organizzazione mondiale della sanità – dicevamo sarebbe stato poco più grave di un’influenza. Adesso invece – riflette Gismondo – davanti ai numeri della Lombardia, siamo abbastanza attoniti e vogliamo capire di più”.