Coronavirus, Bucci: “Ecco perché seguire il modello Corea” 

 

di Margherita Lopes 

“Perché non riusciamo a contenere l’epidemia? La percezione che oggi si ha in Italia è che le cose stiano andando peggio che in altri Paesi”, sottolinea Enrico Bucci, professore di Biologia presso la Temple University di Philadelphia, che firma un’analisi sulla situazione italiana pubblicandola su ‘Cattiviscienziati.com’, blog destinato a smontare pseudoscienza e fake news. Ma è davvero così? “Se crediamo che la positività ai tamponi rappresenti in modo affidabile e omogeneo tra Paesi diversi una percentuale più o meno fissa del numero totale di infetti”, “con l’eccezione della Corea del Sud, l’epidemia procede allo stesso modo in tutti i Paesi”. Ebbene, “l’anomalia della Corea del Sud è ovvia ed è l’unico segnale serio da prendere in considerazione”, spiega l’esperto. 

Le peculiarità del modello coreano sono due: la protezione e il monitoraggio continuo dei sanitari (“il nostro personale sanitario – i nostri soldati, in questa guerra – deve essere salvaguardato, per evitare che si trasformi involontariamente in un mezzo di propagazione del virus”, scrive Bucci), ma anche l’attivazione precoce di “un protocollo di tracciamento, test e isolamento delle persone venute in contatto con soggetti infetti, basato su uso di tecnologie digitali, un numero estensivo di tamponi e la collaborazione della popolazione che si è sottoposta a screening volontario, una volta che ciascuno apprendeva di essere stato in possibile contatto con un soggetto infetto grazie alle App che segnalavano i luoghi frequentati nei giorni precedenti dai soggetti trovati infetti. Aumentare semplicemente il numero di tamponi, senza avere strumenti di tracciamento rapido dei contatti che allertino i cittadini sul loro possibile contagio e li inviti a sottoporsi al test, non basta”.  

L’esperto mostra dei grafici che esemplificano l’effetto di ‘molti test a caso’ contro quello di ‘molti test mirati’ sull’andamento dell’epidemia. “Seguendo in toto la strategia della Corea del Sud, cioè usando anche strumenti invasivi della privacy personale, si riesce a tracciare per tempo i focolai epidemici; sempre che, naturalmente, nella zona campionata ci si trovi nella fase iniziale di un’epidemia (quando cioè si possa appunto parlare di focolai epidemici e non di epidemia diffusa)”, precisa. 

“Bisogna, però, discutere anche di contenimento. Potremmo pensare che il problema sia di facile soluzione, attuando una politica di isolamento dei contagiati. Il problema, però, è che molti di questi richiedono anche di essere ospedalizzati: dunque isolamento sì, ma in ospedale, dove si concentrano altri pazienti e personale medico impegnato a fronteggiare l’epidemia. A questo punto il confronto fra Italia e Corea del Sud diventa particolarmente istruttivo”, aggiunge Bucci. “Cosa sappiamo riguardo Sars-CoV-2?” Le infezioni ospedaliere “sono già state descritte a Wuhan, e la possibilità di eventi superinfettivi è stata già enunciata. In Italia i peggiori focolai – quelli del Lodigiano e del Bergamasco – hanno certamente risentito del burst ospedaliero”.  

“Il problema non è solo lombardo: si hanno esempi di cluster epidemici ospedalieri in ogni regione – continua Bucci – e preoccupano soprattutto quelli riscontrati in alcuni ospedali del sud Italia, che, ove non bloccati immediatamente, potrebbero rapidamente replicare il quadro che si osserva al nord. Le infezioni ospedaliere, quindi, contribuiscono a generare il ‘fuoco d’artificio’ rapidissimo e improvviso che accende poi l’incendio di vaste proporzioni. E’ per questo che, tornando ai coreani, sulla scorta dell’esperienza con il coronavirus Mers, essi avevano predisposto una serie di misure che garantissero che la terza fase dopo il tracciamento e il testing – vale a dire l’isolamento – si svolgesse nella massima sicurezza per il personale sanitario”.  

“Percorsi differenziati, sospensione delle attività routinarie non indispensabili, presidi di sicurezza per tutti i medici ed il personale, non solo quello dedicato agli ospedali con casi già accertati di Covid-19. Alcune altre misure prevedono: il test continuo nel tempo di tutto il personale sanitario; l’utilizzo di test serologici, per identificare medici immuni da utilizzare nelle zone a maggior rischio; il tracciamento dei movimenti del personale medico, per evitare che la stanchezza faccia commettere errori”. Non è detto che “tutte queste misure siano praticabili nella realtà italiana; tuttavia, di sicuro queste misure sono certamente più efficaci dell’aumento (pur necessario) del personale medico dedicato che, ove non sia messo in condizioni di sicurezza, potrebbe rappresentare un mezzo di diffusione maggiore dell’epidemia a causa dell’esposizione professionale”. 

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