L’utilizzo di lenti monofocali di ultimissima generazione permette di combattere la cataratta e recuperare il benessere visivo da lontano
Vista offuscata, fastidio alla luce, difficoltà a mettere a fuoco gli oggetti, sensazione di percepire i colori meno brillanti, più opachi: questi i principali sintomi che si manifestano a chi soffre di cataratta, il disturbo causato dalla progressiva opacizzazione del cristallino e risolvibile attraverso la sostituzione chirurgica della lente naturale dell’occhio con una artificiale, chiamata lente intraoculare.
Oggi, grazie all’innovazione tecnologica, ci sono importanti novità per l’intervento agli occhi più diffuso al mondo: impiegando lenti intraoculari monofocali di ultimissima generazione, è possibile recuperare un’ottima visione non solo per le lunghe distanze, ma anche per quelle intermedie, fino a 70 centimetri, migliorando notevolmente la qualità di vita dei pazienti. Questa nuova tipologia di intervento è oggi disponibile presso i Centri Neovision, primo network italiano di cliniche oculistiche a elevata vocazione tecnologica, con il nome di “Cataratta Plus”.
In Italia ogni anno si registrano circa 500.000 nuovi casi di cataratta. È una patologia legata al fisiologico processo di invecchiamento dell’organismo e si manifesta generalmente dopo i 50 anni di età. Se non si interviene nelle fasi iniziali della malattia, la riduzione della capacità visiva diventa sempre più invalidante: aumenta il senso di insicurezza nei movimenti, interferisce con le normali attività quotidiane, fino a compromettere il benessere fisico e mentale della persona.
L’intervento chirurgico – veloce, indolore ed effettuato solitamente in regime ambulatoriale – rappresenta l’unica terapia valida. Oggi, grazie ai progressi della moderna chirurgia oftalmica, le cliniche Neovision offrono ai pazienti la possibilità di recuperare una performance visiva di qualità superiore rispetto agli interventi tradizionali, che consentono di correggere i difetti visivi solo sulla lunga distanza.
In “Cataratta Plus” il cristallino viene sostituito con lenti intraoculari monofocali d’avanguardia (chiamate “monofocali plus”) appositamente studiate per garantire una visione nitida fino alle medie distanze, senza l’utilizzo degli occhiali, con innumerevoli vantaggi per i pazienti. Riuscire a vedere fino a 70 centimetri, infatti, consente di svolgere in totale sicurezza e autonomia la maggior parte delle attività di tutti i giorni: lavorare al computer, cucinare, guardare la televisione e guidare, distinguendo bene il cruscotto.
“Nell’ambito della chirurgia della cataratta le cliniche Neovision sono state le prime in Italia ad abbandonare le lenti monofocali standard per sostituirle integralmente con le monofocali plus, sfruttando i progressi derivanti dall’innovazione tecnologica che ogni giorno permette a milioni di persone di migliorare la qualità della propria vita”, spiega Mauro Zuppardo, Medical HR Manager di Neovision. “Se si considera che molte delle nostre attività quotidiane sono svolte a una distanza intermedia, ben si comprende come il benessere visivo fornito dall’intervento ‘Cataratta Plus’ sia senza pari, consentendo il recupero immediato di una visione di qualità, senza aloni, sia da lontano che fino a 70 centimetri”.
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Malattie degenerative della vista: il male del nuovo millennio
2 anni agoLe malattie della vista, comportando una minore autosufficienza e un maggior isolamento, hanno un notevole impatto sociale
Nel mondo occidentale la maggior parte della popolazione “over 65” è in buona salute, configurandosi, spesso, come una potenziale risorsa per la comunità. Tuttavia l’allungamento della vita non corrisponde sempre ad un reale mantenimento della sua qualità.
La Degenerazione Maculare Legata all’Età (DMLE) è una patologia legata all’invecchiamento ed è la principale causa di riduzione visiva nei soggetti con età superiore ai 65 anni. In Italia colpisce circa 1 milione di persone (tra diagnosticate e non).
E’ un’affezione cronica a carattere degenerativo e progressivo, che interessa la macula, la porzione centrale della retina deputata alla visione distinta. Esistono due forme della patologia, quella secca e quella umida o essudativa. Quest’ultima (10-15% dei casi) determina un rapido e progressivo calo visivo, associato a distorsione della visione centrale ed è la principale causa, nei Paesi sviluppati, di perdita visiva irreversibile.
In Italia, ogni anno si registrano circa 50.000 nuovi casi di DMLE essudativa. La prevalenza della DMLE è rara prima dei 55 anni, ma la sua incidenza aumenta soprattutto dopo i 75 anni. Secondo alcune stime la patologia colpisce il 20% degli ultracinquantenni (1 persona su 5) e, in particolare, il 35% (1 persona su 3) degli ultrasettantenni.
Alla luce dei dati epidemiologici, la DMLE può essere considerata una malattia di grave rilevanza socio-sanitaria. Nelle forme moderate e gravi, con profonda riduzione visiva, i pazienti subiscono un peggioramento della qualità della vita del 60%.
Questa è una conseguenza delle gravi limitazioni delle normali attività della vita quotidiana, come leggere o guidare o della capacità di occuparsi di sé, che la malattia comporta. Senza considerare che la perdita visiva associata a DMLE aumenta il rischio di cadute e fratture, con la conseguente necessità di una frequente assistenza medica riabilitativa.
La diagnosi tempestiva, attraverso visite oculistiche da effettuare con regolarità dopo i 55 anni, è di fondamentale importanza, perché permette allo specialista di orientare il paziente verso i trattamenti più adeguati. È opportuno ricordare che, se la patologia è curata in modo appropriato, la perdita visiva non solo può essere arrestata, ma può anche regredire.
Una semplice visita oculistica, tuttavia, non è sempre sufficiente per formulare una diagnosi corretta. Per confermare quest‘ultima e inquadrare la malattia sono, infatti, necessari alcuni esami strumentali; tali accertamenti sono la tomografia ottica a coerenza (OCT), l’angiografia con fluoresceina (o fluorangiografia), eventualmente anche con verde di indocianina.
Negli ultimi 20 anni il trattamento della DMLE essudativa ha registrato notevoli progressi, con la scoperta di farmaci ad azione mirata sul fattore di crescita dell’endotelio vascolare VEGF, somministrati attraverso iniezioni intravitreali. In patologia oculare è noto che il VEGF-A e il PGF (fattore di crescita placentare) sono coinvolti principalmente nell’induzione della neovascolarizzazione oculare.
L’attuale standard terapeutico per il trattamento della DMLE essudativa è pertanto la terapia anti-VEGF somministrata mediante iniezione intravitreale.
Inizialmente, i farmaci disponibili hanno dimostrato di prevenire la perdita visiva e di aumentare l’acuità visiva attraverso somministrazioni mensili, rappresentando però per il paziente un carico gravoso e scarsamente applicabile nella pratica clinica. Pertanto, si è avvertita la necessità di una terapia anti-VEGF, che coniugasse vantaggi ottimali in termini di acuità visiva con un regime posologico più funzionale nella vita di tutti i giorni.
Dopo gli anticorpi monoclonali, che hanno rappresentano la prima frontiera delle terapie per questa patologia, nel 2013 è arrivato sul mercato italiano una nuova molecola di Bayer: aflibercept. Si tratta di una proteina di fusione completamente umana, con un meccanismo d’azione che agisce “intrappolando” i fattori responsabili della crescita anomala dei vasi sanguigni all’interno della retina. Diversi studi hanno dimostrato che aflibercept ha nell’occhio una durata d’azione più lunga e una potenza maggiore rispetto agli altri anti VEGF, rendendo possibili somministrazioni meno frequenti.
Con aflibercept sono stati studiati approcci cosiddetti “proattivi” nei quali la somministrazione del farmaco avviene anche in assenza di attività della malattia, secondo uno schema fisso (ogni due mesi dopo una fase iniziale di 3 somministrazioni mensili), oppure secondo una modalità “Treat and Extend”, in cui dopo la fase fissa iniziale l’intervallo tra una iniezione e la successiva viene esteso o ridotto sulla base della risposta individuale del paziente.
Il regime T&E è un regime personalizzato, che ha come obiettivo la prevenzione della riattivazione della patologia. Il farmaco viene somministrato ad ogni visita programmata, indipendentemente dalla situazione anatomica o funzionale del paziente al momento della visita. L’acuità visiva e la situazione anatomica del paziente servono a determinare l’intervallo tra i trattamenti, con l’obiettivo di individuare per ciascun paziente l’intervallo massimo raggiungibile, senza che si verifichi alcuna recidiva.
Questo tipo di approccio permette di ridurre il numero delle visite e di eliminare i monitoraggi tra le iniezioni, rendendo più gestibile la patologia, contenendo l’utilizzo delle risorse e facilitando l’aderenza alla terapia del paziente. Sulla base degli studi VIEW e del recente studio ALTAIR, attualmente la label di aflibercept per il trattamento della DMLE essudativa prevede un’iniezione al mese per 3 mesi consecutivi e una quarta iniezione dopo un primo intervallo di due mesi; gli intervalli successivi possono essere mantenuti a due mesi o ulteriormente allungati di 2 o 4 settimane secondo il regime ‘Treat and Extend’. Se necessario, in base alle condizioni del paziente, è possibile ridurre l’intervallo tra le iniezioni.
Oltre alla Degenerazione Maculare Legata all’Età, aflibercept ha anche l’indicazione per l’Edema Maculare Diabetico (Diabetic Macular Edema:DME).
DME è una malattia che si verifica quando, nei pazienti diabetici, i vasi sanguigni nella retina riversano fluidi e proteine nella macula (zona centrale della retina), provocando un ispessimento della stessa, DME può insorgere in qualsiasi fase della retinopatia diabetica, complicanza che interessa globalmente almeno il 30% della popolazione diabetica.
DME si instaura solitamente sotto forma di ridotte aree edematose, che non interessano il centro della macula (la fovea), ma può progredire fino ad occupare aree più estese che compromettono o interessano questa regione. Pertanto, il rilevamento e il trattamento precoce delle varie forme di DME risultano essere di vitale importanza.
Fra i sintomi del DME vi sono: visione offuscata o distorta, percezione sbiadita dei colori, alterazioni nella sensibilità al contrasto, aree di cecità nella visione centrale. Nei casi di DME sospetto, l’OCT (tomografia ottica a radiazione coerente) è il test diagnostico più appropriato per una corretta valutazione e quantificazione della patologia.
Essendo la principale causa della perdita della vista nei soggetti con diabete di tipo 1 e 2, DME può avere un notevole impatto negativo sulla qualità della vita e sulla capacità di svolgere le attività quotidiane. I dati sulla prevalenza del DME possono variare fortemente. Alcune stime suggeriscono che nel 2010 circa 21 milioni di persone al mondo soffrivano di DME e questa prevalenza aumenterà fino a raggiungere i 33 milioni entro il 2030. La Federazione Internazionale del diabete ha dichiarato che fra i pazienti affetti da diabete in Europa, circa l’11% sviluppa DME e l’1-3% soffre di significativa perdita della vista come conseguenza di questa condizione.
E’ stato dimostrato che il fattore di crescita dell’endotelio vascolare o VEGF ha un ruolo centrale nella vasculopatia retinica che contribuisce alla fisiopatologia del DME. Un altro componente della famiglia del VEGF, il fattore di crescita placentare o PGF aumenta in modo proporzionale al grado di severità di questa malattia.
I paradigmi di trattamento del DME hanno avuto una rapida evoluzione in anni recenti. Anche se la fotocoagulazione laser a griglia maculare o focale è stata ampiamente raccomandata come standard terapeutico fin dagli anni ’80, questo approccio è generalmente efficace nello stabilizzare la vista, non nel migliorarla. Le Linee Guida di EURETINA (la Società Europea degli specialisti di malattie della retina) oggi non considerano più il laser come gold standard, ma ne limitano l’utilizzo ad alcuni casi particolari.
L’uso di corticosteroidi per via intravitreale è diventato un’alternativa, con un favorevole rapporto costo-efficacia rispetto alla fotocoagulazione laser: tuttavia, questo approccio è limitato ad alcune categorie di soggetti e da possibili rilevanti eventi avversi, come cataratta e aumento della pressione intraoculare.
La classe terapeutica più utilizzata per il trattamento del DME è rappresentata dagli inibitori del fattore di crescita endoteliale vascolare (VEGF), o anti-VEGF.
Studi clinici con anti-VEGF hanno dimostrato miglioramenti significativi dell’acuità visiva in pazienti con DME rispetto alla fotocoagulazione laser. Di conseguenza, i farmaci anti-VEGF sono entrati nell’armamentario terapeutico del DME. I farmaci anti-VEGF (tra i quali aflibercept) sono stati valutati in studi clinici su vasta scala. Questi studi, confermati dai dati desumibili dalla pratica quotidiana, hanno dimostrato miglioramenti visivi significativi, rispetto alla terapia con laser.
In particolare, l’efficacia e la sicurezza di aflibercept in confronto alla fotocoagulazione laser maculare sono state valutate in due ampi studi della durata di tre anni (VIVID-DME e VISTA-DME). La fotocoagulazione laser maculare è stata scelta come trattamento di confronto per entrambi gli studi, in quanto riconosciuta, all’epoca, come ‘gold standard’ di trattamento per il DME. Gli studi VIVID e VISTA hanno dimostrato che il trattamento con aflibercept determina un significativo e rapido incremento dell’acuità visiva, che si mantiene fino a 3 anni di osservazione.
Sulla base degli studi VIVID e VISTA la label di aflibercept per il trattamento della compromissione della vista secondaria a edema maculare diabetico prevede un’iniezione al mese per 5 mesi consecutivi e, successivamente, un’iniezione ogni due mesi; non è necessario alcun monitoraggio tra le iniezioni. Dopo il primo anno è possibile somministrare aflibercept in regime “Treat and Extend”.
Nel 2015, inoltre, è stato pubblicato uno studio indipendente, il Protocol T, che aveva come obiettivo quello di confrontare ad un anno l’efficacia di 3 farmaci ad azione anti-VEGF, aflibercept, bevacizumab e ranibizumab (0.3mg), nel trattamento di pazienti affetti da DME. Lo studio ha avuto il merito di evidenziare che nei pazienti con al baseline un’acuità visiva inferiore alle 69 lettere ETDRS (circa il 50% dell’intera popolazione arruolata nello studio), l’utilizzo di aflibercept ha permesso di guadagnare un numero di lettere superiore rispetto agli altri due farmaci.
Questo importante risultato è stato ripreso anche dalle Linee Guida EURETINA per la gestione del DME (Guidelines for the Management of Diabetic Macular Edema by the European Society of Retina Specialists –EURETINA) nelle quali infatti si afferma che aflibercept è il farmaco di scelta per il trattamento del DME in pazienti che al baseline presentano un visus inferiore alle 69 lettere.
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B-Future Neuromed, viaggio nel passato per capire il futuro
2 anni agoUn viaggio attraverso il passato, una freccia puntata al futuro. Le prime avventure scientifiche, le idee che hanno plasmato il nostro presente, quelle che plasmeranno il domani.
Per esplorare questo ponte tra passato e futuro, per gettare uno sguardo all’indietro e chiedersi quale sarà il prossimo passo, la Fondazione Neuromed, assieme ai suoi partner, ha presentato a Roma il progetto ‘B-Future’ inserito nel grande quadro della Notte europea dei ricercatori 2018. La manifestazione, assieme agli altri 8 progetti italiani selezionati dalla Commissione europea per il biennio 2018-2019, è stata illustrata nel corso di una conferenza stampa al ministero dell’Istruzione, università e ricerca, a Roma.
Dal 24 al 29 settembre 2018, il progetto B-Future, promosso dalla Fondazione e dall’Irccs Neuromed, sotto l’egida del ministero della Salute, inviterà studenti e cittadini a percorrere il cammino delle conquiste umane. Un percorso che li porterà a riflettere sulla nascita delle idee e delle innovazioni. Concetti appena abbozzati migliaia di anni fa che sono diventati le cure mediche di oggi, teorie apparentemente senza sbocchi pratici divenute tecnologie alla portata di tutti. Saranno due le regioni coinvolte da B-Future: Molise, nell’Irccs Neuromed di Pozzilli, e Campania, nel Polo di Ricerca Neurobiotech di Caserta. Il coinvolgimento della rete degli Irccs delle Neuroscienze, con le loro iniziative, arricchirà il programma estendendolo all’intero territorio nazionale.
“Il titolo del nostro progetto trae spunto dal film ‘Ritorno al futuro’ – spiega Emilia Belfiore, responsabile ufficio Ricerca e sviluppo dell’Irccs Neuromed – ma con la proiezione di poter ‘essere il futuro’. Un messaggio diretto non solo ai ricercatori, ma anche al pubblico. La Notte europea dei ricercatori è per definizione un momento di apertura dei laboratori ai cittadini interessati a vedere come funzionano e come lavorano gli scienziati e con il tema ‘ritorno al futuro’ vogliamo far capire che, se siamo giunti a particolari livelli di innovazione, è perché chi ci ha preceduto ha costruito realtà straordinarie di cui oggi possiamo giovare e su cui bisogna continuare a lavorare. Si pensi alla longevità che abbiamo conquistato e a quanto oggi la ricerca debba continuare a concentrarsi sull’invecchiamento in salute”.
La Notte dei ricercatori, ha detto il sottosegretario all’Istruzione Lorenzo Fioramonti, “deve portare la scienza nelle case e avvicinare i cittadini alla scienza, non solo come divulgazione ma come coinvolgimento diretto. Tengo molto che si capisca che la scienza del XXI secolo non la fanno solo gli scienziati, ma è frutto di una collaborazione interdisciplinare e intersettoriale e deve coinvolgere imprese, tecnici esterni e cittadini nei suoi processi”.
L’incontro tra scienza e cittadini avverrà attraverso visite guidate, laboratori interattivi, iniziative culturali a cavallo tra cultura scientifica e cultura umanistica. E alla fine il valore più importante: le persone, i ricercatori. Saranno loro a incontrare giovani e adulti, per raccontare il proprio lavoro, rispondere a domande, illustrare le complessità delle sfide che affrontano e, naturalmente, le speranze.
Due convegni, infine, segneranno momenti particolari di questa iniziativa. Venerdì 28, alle 17.30 nell’Irccs Neuromed, il simposio ‘Investire nei giovani ricercatori per disegnare il futuro dell’Europa’ evidenzierà ciò che l’Europa fa per la ricerca attraverso le testimonianze di giovani ricercatori beneficiari di finanziamenti nel quadro del programma Horizon 2020. Sabato 29 alle 10.30, nel Complesso monumentale Belvedere di San Leucio a Caserta, si affronterà l’attualissimo tema ‘Le fake news in medicina: una patologia dell’informazione’. E in più, un evento ‘a sorpresa’ il 15 settembre.
“Il nostro obiettivo – aggiunge Mario Pietracupa, presidente Fondazione Neuromed – è di comunicare il valore della ricerca scientifica non solo agli addetti ai lavori, ma soprattutto alla grande utenza. E per avvicinare i cittadini abbiamo pensato di utilizzare con qualche strumento d’effetto: il progetto, sulla scorta del famoso film ‘Ritorno al futuro’, sfrutterà anche effetti scenici. Il tutto per ripercorrere le tappe del passato e riannodare i fili della memoria, evidenziando come sia stata importante la ricerca per il progresso della comunità”.
B-Future è promosso dalla Fondazione e da Neuromed in collaborazione con Rete degli Irccs delle neuroscienze; Centro italiano di ricerca aerospaziale; Università di Scienza e Tecnologia di Huazhong (Cina); Consorzio Campania Bioscience – Università Vanvitelli; Università Parthenope – Dipartimento di scienze motorie e Dipartimento di ingegneria; Ufficio scolastico regionale del Molise; Scuole superiori di Caserta e provincia; Polo museale del Molise.
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Terapie geniche, ecco come cambia la vita dei pazienti
2 anni agoTommaso, italiano, e Sebastian, americano, fra i 90 trattati negli istituti Telethon
C’è Tommaso, tre anni, che prima non poteva stare a contatto con gli amichetti o nei luoghi chiusi, affollati. Grazie alla terapia genica può avere una vita normale, può frequentare gli altri bimbi e giocare con i cuginetti, che non aveva mai visto prima della cura. Oppure Sebastian, 16 anni, che dagli Stati Uniti si è venuto a curare in Italia e che negli ultimi anni ha fatto tante cose per la prima volta: ha visto dei film al cinema, ha nuotato in piscina, ha partecipato a diversi concerti, come quello di Jovanotti a San Francisco. Sono solo due delle numerose storie di piccoli o grandi pazienti che hanno ritrovato la speranza grazie agli impressionanti avanzamenti della medicina moderna.
Entrambi i bambini sono affetti da Ada-Scid, una rara patologia che appartiene al gruppo delle immunodeficienze severe combinate, malattie in cui il sistema immunitario è gravemente compromesso, al punto che l’organismo è incapace di difendersi dagli agenti infettivi. All’Istituto San Raffaele-Telethon di Milano (SR-Tiget), i ricercatori a partire dal 2002 hanno dimostrato per la prima volta l’efficacia della terapia genica per la cura dell’Ada-Scid. Il protocollo terapeutico prevede il prelievo delle cellule staminali dal midollo osseo dei pazienti, la loro correzione in laboratorio tramite l’introduzione del vettore contenente il gene terapeutico e infine la reinfusione nell’organismo del paziente.Oltre a Tommaso e Sebastian, sono oggi 29 (di cui 10 italiani) i pazienti trattati al SR-Tiget per Ada-Scid. Ma se prendiamo in considerazione anche le terapie messe a punto contro altre malattie (erogate sia nell’ambito di sperimentazioni cliniche sia in regime compassionevole, sia con farmaco registrato), “l’Istituto SR-Tiget di Milano ha preso in cura a oggi 84 persone, di cui 26 italiani: 30 per leucodistrofia metacromatica; 15 per sindrome di Wiskott-Aldrich; 9 per beta talassemia; uno per mucopolisaccaridosi di tipo 1, mentre l’istituto Telethon di Napoli (Tigem) ha trattato 5 pazienti per mucopolisaccaridosi di tipo 6”, racconta all’Adnkronos Salute Luigi Naldini, direttore dell’Istituto SR-Tiget di Milano.La terapia genica non è più dunque una chimera, ma una realtà “per oltre un centinaio di pazienti italiani con malattie rare o tumori, che sono stati trattati nell’ambito di vari trial clinici nel nostro Paese: da noi per varie malattie genetiche, una decina a Modena per patologie della pelle, a Napoli pazienti con mucopolisaccaridosi, oltre ai bambini con leucemia linfoblastica acuta in cura a Monza e a Roma, e ad altri malati di linfoma”.
Secondo Naldini, “siamo solo all’inizio di una rivoluzione, l’impiego delle cellule geneticamente corrette come veicolo per la somministrazione della terapie sta cambiando il paradigma di trattamento di molte malattie, e a questo si affianca la crescente precisione delle tecniche di correzione genetica, come l’utilizzo di Crispr per l’editing del Dna. Con queste tecniche possiamo ora letteralmente ‘riscrivere’ la sequenza del Dna correggendo direttamente le mutazioni responsabili della malattia. E si può anche immaginare un domani di superare la natura altamente personalizzata di alcune di queste terapie”.
Se per ora le terapie sono infatti costruite ‘a misura di paziente’, utilizzando le sue stesse cellule opportunamente modificate, la direzione in cui la ricerca sta andando, fra le altre, è quella “di arrivare a una sorta di ‘cellula donatrice universale’ in grado di trasferire l’immunità contro certi tipi di tumore o patogeni, per dar vita a una procedura generale applicabile, appunto, a più di un singolo malato. E’ un progetto che ha già raggiunto le prime sperimentazioni cliniche, ad esempio c’è già stato un caso di terapia anti-leucemia con linfociti ingegnerizzati (Car-T) effettuata su una paziente che non aveva più cellule T, per cui sono state usate quelle di un altro individuo dopo apposite modifiche genetiche. C’è una prova clinica iniziale, dunque, ma la ricerca come si sa deve sviluppare metodi robusti”.
“Chi può sapere che cosa sarebbe successo se Sebastian non avesse ricevuto il trattamento con terapia genica – dice la mamma Lynette – molto probabilmente non sarebbe con noi oggi. Ora conduce una vita normale, come quella dei suoi coetanei. Gli piace passare il tempo con i suoi amici, suonare la chitarra e guardare video su Youtube”.
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